CESARE VIVALDI, poeta, critico, direttore dell' "Accademia di Belle Arti" di Roma scrive nel '93:
Tra il 1979 e il 1981 ho vissuto per periodi anche di mesi a Calcata, dove per l'appunto nel 1979 era piovuto Costantino Morosin.
Pieno di vitalità da scoppiare, Costantino in quel periodo non faceva quasi altro che scoprire instancabilmente il territorio di Calcata, addentrandosi nelle viscere di un paesaggio talmente incassato nel tufo da divenire pura essenza di tufo esso stesso (quel tufo destinato a divenire la materia d'elezione della scultura di Costantino), scorrazzando ovunque in sella a un ciclomotore Iillipuziano, poiché Morosin è grande e grosso da parere una versione bonaria dei giganti delle favole.
Per il resto egli si occupava di design e cominciava a interessarsi dei rapporti tra arte e tecnologia, di olografia e della creazione di immagini fluide con l'uso del computer, problemi che lo occuperanno quasi esclusivamente negli anni tra il 1982 e il 1986.
Era una vita, la sua di allora, di apparente dispersione ma in realtà di profonda compenetrazione con una natura antropologizzata e storicizzata in ogni suo atomo, di una passione conoscitiva e riconoscitiva delle proprie più segrete ragioni poetiche e creative) che non si esplicava nello studio a tavolino o nel lavoro ma in una sorta di assorbimento per via visiva, olfattiva, tattile, una vera e propria compenetrazione tra un uomo e una terra.
Compenetrazione attraverso la quale si risolveranno, dopo qualche anno, le antinomie della cultura, e della vita, di Costantino Morosin: l'educazione estetica e l'attitudine estetica da una parte, e dall'altra la volontà di agire sul sociale e la passione per la vita dell'uomo e per l'antropologia culturale.
Con la messa in parentesi, almeno per adesso, di tutto quanto riguarda le tecnologie avanzate e le loro possibili applicazioni in campo artistico; messa in parentesi che non è comunque detto debba essere per sempre.
Dal 1986 Morosin non ha fatto altro che dare forma, anzi forme, a quel tufo nel quale ormai si era come identificato.
Dapprima quasi vergognandosene, al punto di camuffare quella che era vera e propria scultura da arte concettuale, poi a mano a mano lasciando che il suo ricco talento plastico venisse allo scoperto nell'invenzione di forme ora elementari e primarie, archetipiche, ora riccamente elaborate e formalmente complesse. Per due anni, dal 1986 al 1988, Costantino ha scolpito nel tufo uova, piccole e grandi, alcune seppellite in vari angoli del territorio di Calcata, nel luogo stesso in cui le aveva lavorate e nello stesso tempo ha pensato, ed eseguito, dei grandi "troni", sempre di tufo, concepiti per dar modo agli dei di riposarsi a Calcata.
Giustificazioni letterarie di una scultura che in realtà trovava in se medesima le proprie giustificazioni, nel proprio rivivere l'archetípo dell'uovo, con tutte le sue implicazioni vitalistiche e mitologiche e con la sua straordinaria immanenza plastica, o col proprio riproporre l'oggetto d'uso (il trono) amplificandone le valenze sacrali o regali attraverso un'enfasi plastica assai accortamente studiata e, nell'esecuzione, condotta a termine ruvidamente.
In questi ultimi cinque anni Costantino ha abbandonato ogni schermo concettuale ed ha messo in piena luce il proprio prorompente talento di scultore in un accortissimo processo di stilizzazione che non ha nulla del "pupazzettismo" transavanguardistico ma che va a pescare i propri modelli in epoca protonovecentesca, tra Carnbellotti e Arturo Martini.
Modelli dai quali è poi facile discendere a Moore o magari alle sagomette di Haring, o viceversa risalire a Brancusi e su su sino agli idoli cicladici e, naturalmente, a quelli etruschi cui irresistibilmente ci porta a far riferimento il tufo (e il peperino e la terracotta e persino il bronzo) di Costantino. Per non parlare della stessa Calcata e del suo paesaggio. E così ecco che, in apparenza, il cerchio si chiude: partiti dal tufo e dal paesaggio di Calcata ad essi si ritorna. Ma non si tratta di un percorso anulare che si ribatte e salda, bensì di un percorso a spirale che sale sempre dì più e con sempre maggiore autorità.
Poiché tra il tufo che anni or sono Costantino scopriva ed amava e del quale si compenetrava, e il tufo oggi da lui violentemente scolpito in forme esatte c'è tutta la distanza che intercorre tra ipotesi e fatto, tra possibilità e certezza. La grande forza plastica di Costantino, allora soltanto virtuale, nemmeno appieno intuita, oggi è un dato di fatto in continuo progresso, dal quale è lecito aspettarsi le sorprese più imprevedìbilì, anche se prevedibilmente positive. Il talento di Costantino, che per ora ha dato il risultato più alto con i "Cavalli" di travertino dei quali discorre con acume Paolo Portoghesi è in irresistibile ascesa. Il suo primordialismo stilizzato (non troppo lontano da quello di un Pietro Cascella ma pure profondamente diverso) dovrà forse articolarsi in declinazioni più varie e ricche e complesse, ma non può alterare i propri connotati ormai così precisamente stabiliti.
E Costantino non dovrà dimenticare la sua straordinaria attitudine decorativa, ben evidente nelle sue pitture, ma ancora più interessante in quelle sculture (ovviamente non esponibili) "integrate" negli ambienti, facenti parte di sovrapporte, capi di scala, mobili, pilastri, colonne eccetera.
Questa mostra di Viterbo dovrebbe essere un primo passo per il riconoscimento, sul piano nazionale, della scultura di Costantino Morosin.
Sul cui avvenire anche "pubblico" comunque non ho dubbi, considerando la ricchezza del suo talento e la copiosità della sua vena.
CESARE VIVALDI